Giardino segreto

una cucina a Dozza

Giardino segreto2021-01-29T15:35:29+01:00

Romagna mia, che riviera!

“Rimini è una dimensione della memoria”, così fu la Rimini inquadrata dal genio di Fellini, una visione che nel tempo ha influenzato tutta l’allure della riviera, ancora presente e palpabile, “universale ed eterna” proprio come Fellini definiva la sua terra.
Decine e decine di chilometri di stabilimenti balneari e di città nate dal vertiginoso sviluppo del turismo estivo negli anni ’50-’60, alberghi e pensioni ancora oggi a conduzione familiare. La riviera romagnola divenne famosa grazie a molti film dell’epoca, soprattutto dovuta all’interesse di un pubblico numeroso interessato a conoscere Federico Fellini.

L’immagine della riviera che oggi è nell’immaginario del turista, è indissolubilmente legata a spiagge attrezzate, discoteche e piadine.
Per chi vive nella zona di Ravenna, Forli, Faenza, Imola, fino a Bologna la parola “Spiaggia” è la Romagna, perchè tutti hanno fatto il turismo pendolare nei week end a partire da maggio, è uno scrigno di ricordi fin da bambini in cui trovi i castelli di sabbia, i gonfiabili, i lettini colorati, gli ombrelloni perfettamente allineati, gli aperitivi nel Bagno sulla spiaggia, la musica, i giri in bicicletta, i pedaloni e i ritrovi serali in sala giochi.

In realtà chi vive tutto l’ anno in queste zone custodisce gelosamente l’immagine che Felliini da alla riviera. Nei suoi film, che hanno regalato al mondo immagini bellissime della riviera romagnola, c’è il mare e la spiaggia dove i vitelloni romagnoli facevano i primi approci con le turiste tedesche, oggi totalmente assenti,  ci sono le lunghe distese di spiaggia, riprese a volte piene di vita a volte vuote e grigie; oggi sono ancora così, romantiche all’alba, allegre e chiassiose durante il giorno e malinconiche al tramonto.

Nella sua pellicola più famosa, “Amarcord“, c’è il Grand Hotel di Rimini, parzialmente distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale da un incendio risalente al 1920, ancora oggi è il fulcro del lungomare riminese.
Ogni località nata dallo sviluppo del primo turismo di massa degli anni ’20-’40 ha il suo grand Hotel sul lungomare, è sempre d’impatto, per esempio, il gran Hotel di Cesenatico che si affaccia sulla piazza principale. Le sere si animano sui terrazzi comuni e i grandi saloni sono illuminati da prezziosi lampadari. Dicono sia in decadenza rispetto al passato ma per me ha sempre un gran fascino.

Un altro simbolo della Riviera Romagnola sono i Grattacieli azzurri e bianchi.
In primavera è uscito un libro che racconta la storia del grattacielo di Cesenatico “Cesenatico e il suo grattacielo” di Ennio Nonni, Valentina Orioli e Davide Gnola. Mi è piaciuto molto leggere questo libro e scoprire un aspetto che non conoscevo dell’ediliza sulla riviera romagnola. L’autore indaga in quell’immaginario che ha contribuito alla ricerca e alla sperimentazione verso una poetica del grattacielo, che si scopre ben lontana da fini speculativi e più vicina, invece, alla ricerca di un nuovo modello abitativo. L’Ingegnere Berardi, di Lugo, giustificava l’altezza, con l’intento di conferire panoramicità alla costa: piatta e sabbiosa; egli voleva mostrare l’Adriatico dall’alto, illuminando la riviera con una metafora moderna dell’antico faro portuale.



Costruito nel 1958 seguendo i canoni architettonici del dopoguerra, con i suoi 118 metri di altezza è stato il grattacielo più alto d’Italia fino al 1960, anno di completamento del Grattacielo Pirelli di Milano. Attualmente è il 14° grattacielo più alto d’Italia, e ancora oggi uno degli edifici in cemento armato più alti. Consta di 35 piani di cui 30 destinati a uso abitativo per un totale nella torre di 120 appartamenti.

I grattacieli della costa Romagnola nacquero come emblemi della tecnologia progettati per osservare la natura. Dal loro interno i villeggianti dovevano poter vedere il mare. Ne sorsero solo tre lungo il litorale che collega Rimini a Milano Marittima, ma la loro presenza non passa inosservata. Le loro sagome sono riconoscibili anche dalle colline a trenta chilometri di distanza perchè così doveva essere nel progetto, per questo non è vero come spesso si sente dire sotto l’ombrello che i grattacieli sono il frutto di un edilizia insensata realizzata sull’onda del boom economico degli anni 50-60.


Se si vuole capire fino in fondo qual’è l’autentica cucina Romagna, bisognerà conoscere l’Azdora. Le azdore sono un simbolo del nostro territorio, unitamente alla piadina e ai bagnini. E’ un figura quasi leggendaria,  la si riconosce perchè riveste ancora oggi tutte le caratteristiche di un personaggio “felliniano”. In passato l‘ azdora era la regina del focolare e della cucina nelle famiglie contadine, di solito la moglie dell’azdor, il capo famiglia.
I migliori ristoranti hanno ancora l’azdora in cucina a tirare la sfoglia o a fare le piadine. Forse iniziano ad essere in via d’estinzione ma fintanto che la Romagna promuoverà le sagre paesane, l’azdora avrà lunga vita alla “sagra delle sfogline” alla “sagra della sfoglia lorda” e ancora a quella dei tortellini, del castrato, della brazadella, e della piè fretta.

La cucina romagnola è principalmente povera e semplice, dal gusto genuino. Strozzapreti, salsicce, passatelli, braciole di castrato, sono tra piatti più noti. I molti prodotti che costituiscono le portate principali giungono dal mare e dalla campagna rendono le pietanze uniche e particolarmente appetitose.
In cucina, così come in spiaggia chi sa tutto di cucina, dosi, migliori ingredienti e tecniche segrete di esecuzione sono le Azdore.

Quando ero piccola in spiaggia passavano queste signore grosse e accaldate con vestiti a grembiulone che, in cesti coperti da panni di lino disegnato, vendevano la merenda: bomboloni e ciambellini fritti, le più evolute avevano un cavaletto su cui poggiavano un grande contenitore di plastica trasparente che conteneva, oltre ai bomboloni anche gli spiedini di frutta e noci caramellati. Oggi questa usanza non c’è più, naturalmente per le numerose norme igienico-sanitari che sono state introdotte in questo ultimo decennio non viene più venduto cibo in spiaggia.
Il bombolone della riviera continua però ad essere venduto in tutti i bar e le pasticcerie.

Il bombolone della riviera è diverso da quelli che si trovano comunemente in città, la sua particolarità è di essere leggero e poco dolce. L’impasto che avvolge la crema è un leggero strato di pasta che non sembra neppure un impasto lievitato, è come una grande bolla che racchiude una crema esageratamente liscia e poco gialla rispetto alle comuni creme pasticcere. Il risultato è un dolce fritto leggero e goloso, lo si mangia in pochi bocconi.
Nonostante la mia insisitenza in giro per le pasticcerie e i forni, nessuno mi ha dato la ricetta o il segreto per creare questo bombolone. Ho provato a fare alcuni esperimenti e devo dire che il risultato è solo una sommiglianza all’originale.

La mia Azdora di fiducia mi ha consigliato di mettere nell’impasto poco lievito rispetto alla dose utilizzata per un bombolone normale e di friggere la pallina schiacciata e non tonda, il segreto è sgonfiare l’impasto con le mani piuttosto che con il matterello. “Parola di Azdora”, e così ho fatto ottenendo un risultato più che accettabile per avvicinarmi il più possibile al bombolone della riviera romagnola.

Altra colonna portante della cucina sulla costa romagnola sono le piadine. Piena di sfacettature questo sostiutivo del pane sulle nostre tavole: è piada, è sfogliata, è piè e può diventare crescione.
Sino agli anni Sessanta la piadina veniva consumata nelle trattorie di campagna o nelle case dove veniva preparata dalle “azdore” con i metodi tradizionali. Quando iniziava la bella stagione, la piadina si vendeva e preparava in strada sotto un ombrellone su una piastra appoggiata ad un tavolo. Il primo modello di chiosco è del 1983 pensato dal Comune di Cervia per regolamentare la vendita dal punto igienico-sanitario e per riconoscere ufficialmente le caratteristiche di azienda artigiana a coloro che svolgevano tale attività. Le prime autorizzazioni venivano concesse a famiglie bisognose oppure a vedove di guerra. Queste attività commerciali sono oggi riconosciute ufficiamente cone attività artigianali e possono vendere solo piadina, cresioni e rotoli oltre che le bevande da asporto. Attualmente sono 50 che danno da lavoro ad altrettante famiglie.

Il chiosco si ispira alla tipica cabina balneare, con il suo valore simbolico legato alla storia del turismo locale, il manufatto così progettato è unico nel panorama romagnolo e permette una comunicazione visiva anche in chiave turistica oltre che essere il simbolo dove poter degustare la vera piadina.
Trovate le baracchine sul lungomare, vicino ai centri storici o all’ombra di qualche pino. Nelle località marittime sono a strisce azzurre e bianche, gialle e bianche, acquamarina e bianche, rosse e bianco, blu e bianco, a strisce verdi e bianche verso l’interno, lungo la strade che portono a Cesena.

Gli ingredienti della piadina sono: farina, latte o acqua,  lievito e strutto; a seconda dei dosaggi o di come si tira l’impatto, cambia il proprio sapore, cambia il diametro e lo spessore di zona in zona. A Rimini e Riccione è molto sottile ed arriva ad avere un diametro anche di 35 cm, a Cervia, Milano Marittima, Cesenatico e Pinarella è leggermente più grossa. Nelle zone più interne della Romagna come Cesena, Forli, Faenza e Ravenna, la piadina è decisamente più piccola e alta quasi un centimetro. Io trovo che le piadine siano tutte buone anche se sono fatte in modo diverso, di sicuro c’è che tutte hanno in comune lo strutto. Forse in questi ultimi anni la differenza che può esserci tra le piadine vendute nei chischi è la tipologia della farina, non è raro vedere esposto il nome del mulino che macina a pietra da cui il chiosco si serve. Rispetto ad una volta c’è sicuramente più attenzione alla materia prima di alta qualità, si trovano facilmente anche piadine ottenute con farine alternative, di farro o kamut e altrettanto comune è trovare la piadina impastata con l’olio d’oliva piuttosto che con lo strutto.

La mangi principalmente con tutti i salumi, con il formaggio morbido e la rucola, con la salsiccia e la cipolla,  ma anche con la marmellata o la crema di nocciole. E’ buona sempre, per cena, per uno spuntino o per merenda, con il vino, la bibita o la birra.
La piadina romagnola, che nel novembre 2014 ha finalmente ottenuto la IGP, indicazione geografica protetta, non potrà essere venduta con questa denominazione se non è prodotta sul territorio in cui nasce. Avete il permesso di farla in casa, vi lascerò alcune ricette che mi sono state consigliate, provatele e decidete voi qual’è la migliore. Unica raccomandazione per non togliere il sapore caratteristico e l’aspetto maculato, è la cottura in una speciale “teglia ” in terra refrattaria.

Cesenatico è conosciuta per le cozze, nei menù di certi ristoranti è specificato “Cozze di Cesenatico”, perché? È in pescheria che ho avuto tutte le informazioni.
Le cozze di Cervia e di Cesenatico provengono da “allevamenti” situati a circa 5 miglia dalla costa. Non è corretto parlare di allevamento perché non esiste la cattività in mare aperto: non è possibile nutrire forzatamente le cozze, come non è possibile modificare il naturale processo di crescita dei mitili. Il luogo circoscritto semplicemente da boe garantisce la qualità sulla provenienza. Nel 2013 CCPB ha iniziato a certificare la Cooperativa “Mitili Cesenatico” che ha quindi attivato la vendita delle cozze biologiche.

Negli ultimi 25 anni l’aver realizzato vivai di mitili sulle coste davanti a Cervia e Cesenatico ha permesso che intere zone di mare sotto costa, quelle destinate ai vivai e di conseguenza interdette alla navigazione, diventassero zone di ripopolamento per i pesci. Mi ha raccontato il pescivendolo che nel 2014 un grosso danno causato da una corrente anomala ha spostato le corde, i sassi di ancoraggio e le calze con le cozze distruggendo tutti i filari, in quell’estate quindi non c’erano cozze locali disponibili. Quest’anno a Giugno un gruppo di giapponesi, esperti di gastronomia e proprietari di ristoranti, è venuto a Cesenatico per imparare le tecniche di coltivazione delle Cozze. 

Sulla costa romagnola troneggiano in tavola i piatti a base di pesce dell’adriatico, ci sono brodetti e grigliate, spiedini e guazzetti, risotti di mare e spaghetti alle vongole. La cucina nelle località di mare è un sottile equilibrio tra sole e mare, è una ricercata semplicità che non delude mai.

Ho cucinato cozze e vongole in modo semplicissimo, con aglio e prezzemolo e sono state cotte nella loro acqua filtrata con una garza di cotone. Si ottiene un guazzetto che sa davvero di mare e si sposa benissimo con i passatelli asciutti. Solitamente serviti in brodo, sono legati ad un idea di piatto invernale, in realtà serviti senza il loro brodo ma semplicemente rassodati in acqua bollente per pochi minuti, sono davvero gustosi in questa veste estiva.

 Infine, non si può non assaggiare in Romagna dei deliziosi dolcetti da divorare in un boccone: “Le peschine”.
Le peschine, mi ha raccontato un pasticcere di Cesenatico a cui ho posto curiose domande, nascono da una trasformazione di un dolce tipico della zona, la zuppa inglese,  con la volontà di dedicare un dolcetto alla pesca più rinomata del cesenate. E’ una pesca di polpa bianca, dolcissima, matura a luglio ed è il simbolo dell’estate sulla riviera romagnola, ma è molto delicata e alla minima ammaccatura diventa bruna, per questo è stata quasi del tutto abbandonata dagli agricoltori. La pesca detta La Bella di Cesena è quindi ricordata in questo pasticcino ed è in attesa che qualche bravo agronomo riesca a farla diventare più forte e robusta. 

A chiunque chiederete qual’è l’impasto con cui bisogna fare i gusci delle peschine, vi risponderà: “la dose della brazadella”, perchè la vera Zuppa inglese deve essere fatta con la ciambella, un tempo era quella del giorno prima, oggi la si fa utilizzando i savoiardi o le fette della Torta margherita.
Ho quindi provato ad utilizzare i dosaggi della classica ciambella romagnola. Per la realizzazione invece, non esistono degli stampi veri e propri, un tempo si facevano con i gusci delle noci, si ungevano e vi si schiacciava sopra la pallina di impasto. Io usi questi ma credo che in commercio esistano stampi a semisfera, si otterrà un ciambellino a cupola che dovrà essere svuotato all’interno per creare lo spazio della farcitura.

Crema al cioccolato e crema classica, tanto Liquore Alchermes in cui bagnare i gusci di ciambella, zucchero e la peschina è fatta.
Molto buona anche la versione “Peschina bianca”, farcita con la crema mascarpone e la ciambella bagnata nel caffè.
Sono perfette se gustate dopo un paio di ore dalla preparazione, i sapori saranno più amalgamati e i gusci più morbidi.

Che dire della mia Romagna se non “Romagna mia, che riviera che hai!!!”.
La riviera romagnala è sempre sulla cresta dell’onda, si sa reinventare anche in periodi di crisi, è verace e raffinata allo stesso tempo. “Boia d’un mond leder” un giro in Romagna si fa sempre anche se il mare non è dei più belli, un giro in Romagna è “a m’arcord quend l’era pi ed tedesc”, è “un zir in bizicletta” sul lungomare con il gelato in mano, la Romagna è la forza e l’ironia di certi modi dire del suo dialetto che costituisce oggi un vero e proprio genere espressivo. La riviera romagnola è l’ immagine divertente del carattere gioviale e aperto che distingue i romagnoli.

Bomboloni della riviera romagnola

400 gr di Farina per dolci
100 gr di maizena
60 gr di zucchero
70 gr di burro
10 gr di lievito
Per la crema
2 uova
100 gr di zucchero
50 gr di maizena o fecola di patate
500 gr di latte

Per prima cosa preparate la crema nel modo classico con gli ingredienti sopra elencati.
Prima sbattere le uova con lo zucchero, aggiungere la maizena e un pò alla volta aggiungere il latte caldo cercando di non creare grumi. Cuocere lentamente portando il composto a 90°, proseguire la cottura fino a che non si sarà addensata. Laciare raffreddare.
Impastare gli ingredienti per i bomboloni, formare una pallina, coprirla con uno strofinaccio e fare lievitare per 3 ore. Riprendere l’ impasto e impastare nuovamente. Formare delle palline di circa 3 cm di diametro, disporle sul tagliere a distanza tra di loro di almeno tre dita, schiacciarle con le mani fino a un cm si spessore. Coprire con un burazzo e fare lievitare nuovamente per almeno un ora.
Scaldare abbondante olio per friggere, quando sarà ben caldo e inizierà a sfrigolare, immergervi il bombolone non prima però di averlo tornato a schiacciare con le mani. Cuocere senza girarlo troppe volte con la ramina.
Fare raffredare su carta assorbente.
Con la tasca da pasticcere farcire i bomboloni.

Piadina Romagnola delle zone di Riccione, Rimini, Cervia, Cesenatico
(Sottilissima con diametro 33 cm/35 cm)

Versione sottile (sfogliata)
500 gr di farina 0
150 gr di strutto
2 cucchiaini di sale dolce integrale di Cervia

Acqua calda quanto basta

Versione Normale
800 gr di farina 0
160 gr di strutto
2 cucchiai di olio
un cucchiaino di sale di Cervia
Acqua calda quanto basta

Piadina Romagnola delle zone di Faenza, Ravenna, Imola
(Più spessa e con diametro di 25 cm)

1 kg di farina 0
150 gr di strutto
2 cucchiaini di miele
400 gr di latte tiepido
100 gr d’acqua tiepida
30 gr di sale
2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva
Un panetto di lievito di birra

Lavorazione: impastare in modo omogeneo e dove c’è il lievito lasciare lievitare per qualche ora.
Formare delle palline uguali grandi a seconda di che piadina volete ottenere.
Cucere sulla piastra ben calda, da entrambi i lati.

Passatelli in guazzetto di vongole e cozze

Dosi per 6 persone:
Una retina di cozza
Una retina di vongole
4 spicchi di aglio
Olio d’oliva extravergine
Un mazzo di prezzemolo
Per i passatelli
6 uova
6 cucchiai di parmigiano
6 cucchiai di pane grattato
Una grattata di scorza di limone

Prepara i passatelli impastando in una grande ciotola tutti gli ingrdienti. Formare una palla di impasto molto ben amalgamato, avvolgerlo nella pellicola e lasciare riposare in frigorifero.
Pulire le vongole e le cozze con lo stesso procedimento che segue:
In una capiente casseruola riporre tutte le cozze e metterla sul fuoco a fiamma bassa con il coperchio. Lasciarle sul fuoco fino a che non si saranno aperte ed avranno rilasciato la loro acqua.
Togliere dalle cozze aperte la loro acqua e lasciarla raffreddare poi con l’aiuto di un colino a trama fitta e successivamente con una garza,  filtrare il liquido;  in questo modo si toglierà tutta la sabbia.
Togliere dalle cozze il guscio che non contiene il frutto, durante questo passaggio controllate che non ci siano residui di sabbia nascosta e togliere la così detta “barbetta” dalla cozza.
Stesso procedimento lo dovrete eseguire con le vongole.
Schiacciate gli spicchi d’ aglio e fate un battuto grossolano di prezzemolo, soffriggete il tutto in abbondante olio.
Aggiungete i frutti di mare con i loro gusci, poi graduamente incorporate la loro acqua fino a che non avrete raggiunto la quantità necessaria per avere un fondo non troppo abbondante per i passatelli.
Fate attenzione perchè quest’acqua è molto salata, bilanciatela quindi con l’aggiunta di normale acqua calda.
Quando sarà terminata la cottura aggiungete olio di oliva extravergine.
Portate a bollore un’ abbondante pendola di acqua leggermente salata.
Nel frattempo riprendete la pallina di impasto dei passatelli, sistematela nell’apposito strumento e quando l’acqua sarà pronta pressate l’impasto per far fuori uscire i passatelli direttamente sulla pentola con l’acqua che bolle.
Laciarli pochi minuti, quanto basta per indurirli, scolateli con la ramina e riponeteli su un piatto.
Preparate il piatto singolo disponendo prima i frutti di mare con la loro acqua sul fondo, poi adagiate i passatelli asciutti. Servire immediatamente.

Peschine

Per i gusci di ciambella
500 gr di farina per dolci
200 gr di zucchero
150 gr di burro
3 uova
Una bustina di lievito per dolci
Un pò di latte per impastare, se occorre
Per la crema pasticcera classica
8 tuorli di uova
8 cucchiai di zucchero
4 cucchiai di farina
Un litro di latte
Per la crema al cioccolato
4 cucchiai di farina
4 cucchiai di cacao amaro
8 cucchiai di zucchero
un litro di latte

Monta le uova con lo zucchero e il burro ammorbidito a temperatura ambiente, aggiungi la farina e il lievito. Utilizza il latte solo se occorre, l’impasto dovrà essere sodo, molto simile a quello della pasta frolla.
Sistema i gusci di noci sulla carta forno e ungili come se fosse un normale stampo. Con le mani fai una pallina e schiacciala sul guscio ricoprendolo per bene.
Inforna a 180° per 15 minuti circa.
Quando i gusci si sono raffredati, togli dall’interno i gusci di noce.
Prepara un piatto con la tesa e abbastanza fondo, versaci l’ Alchermes, in una ciotola invece metti dello zucchero bianco. Immergi i gusci di pesca nella bagna di liquore e poi passala quando è ben bagnata nello zucchero.
Quando le avrai passate tutte, con un cucchiaino riempi un incavo di crema gialla e uno di crema al ciccolato poi unisci i due gusci. Sistema la pescina in un cestino carta.
Lascia riposare un pò i dolcetti prima di servirli.


Foto: Simona Xella, sono stata fotografata da Cassandra Xella
Le foto sono state scattate a: Cesenatico, Rimini, Riccione e Milano Marittima. La pescheria in foto è a Imola, “Pescheria il Comacchiese”
Scatole a cestino confezionate con strofinacci a stampe romagnole:  Appuntamento con il Decoro, Simona Xella

Bibliografia:

“Cesenatico e il suo grattacielo”, Nonni, Orioli, Gnoli
“La mia Rimini” di Federico Fellini (Cappelli, Bologna, 1967)
“A tavola con Fellini” di M. Maddalena Fellini, 2013
” Romagna, la civiltà della Piadina”, ed. G. Busti, 2009

Dozza, 31 Luglio 2017

Grazie dei fiori

Senza alcun dubbio amo il caldo e l’estate, sarà che sono nata all’inizio di giugno, proprio quando le brezze primaverili lasciano il posto alle prime giornate calde, quando l’armadio si ripopola di vestitini leggeri e i banchi delle bancherelle al mercato si riempiono di frutta succosa. Più di tutto nel momento di passaggio dalla primavera all’estate adoro i fiori, colorati, profumati e bellissimi.

Un detto orientale recita: ” Se vuoi essere felice qualche ora, bevi vino; se vuoi essere felice qualche anno, prendi moglie o marito; se vuoi essere felice tutta la vita, coltiva un giardino”. Il secondo work shop di Giardino Segreto, era stato pensato per sfruttare il meglio che il giardino da nella stagione primaverile, a metà maggio, quando la cura per farlo fiorire da i suoi risultati, in realtà si è svolto sotto una pioggia a catinelle che non ha dato tregua al nostro pomeriggio abbassando notevolmente anche le temperature. Non ci siamo perse d’animo e ci siamo chiuse all’interno e grazie ad una vetrata vista giardino con erba verdissima e pioggia contro il vetro, siamo state bene e i contrasti hanno creato una bella atmosfera.

Ho scelto come ingredienti protagonisti delle nostre ricette, i confetti. Sono una golosità a cui non so risistere in questi mesi, quando per lavoro, vengo invitata dalle spose a fare la degustazione. Grazie a loro sono diventata a proposito di questa dolcezza, una assaggiatrice dal palato fine.
Una torta di confetti è un buona scusa per mangiarli e fare un dolce dai colori e dalla delicatezza dei fiori primaverili.

Il confetto è un dolcetto formato da una mandorla ricoperta di zucchero, è una  specialità prodotta fin dai tempi antichi e usata come simbolo di fortuna e prosperità. Sembra che il confetto fosse già conosciuto in epoca romana, si narra che gli antichi romani fossero soliti usare i confetti per celebrare nascite e matrimoni, solo che all’epoca, non essendo ancora stata importata la scoperta dello zucchero, si usava il miele e si produceva un composto dolce che avvolgeva la mandorla, fatto di miele e farina. Un’altra teoria invece vuole il confetto originario del 1200 d.C. circa, periodo in cui sia le mandorle che le anici e i semi di coriandolo venivano ricoperti da uno strato di miele indurito. Anche in questo caso era un dolce molto apprezzato nelle famiglie nobiliari, le quali usavano conservarli in dei preziosi cofanetti decorati.

L’Italia ha una grande tradizione in fatto di confetti, credo che la fabbrica più antica sia di Andria, in Puglia, la quale produce questi dolci già dal 1894, per opera di Nicola Mucci, la cui ditta ha la curiosità di essere stata la fornitrice di confetti per le nozze reali del principe Umberto di Savoia con la principessa Maria José del Belgio. Questo confettiere, a sua volta, apprese l’arte del produrre confetti da una nota, all’epoca, cioccolateria svizzera sita in Napoli, chiamata Caflish.

La mandorla Avola, prodotta in Sicilia, è la base principale della maggior parte dei confetti, specialmente di quelli italiani; in questi ultimi anni anche i pistacchi e nocciole sono diventati una variante alla classica mandorla dal sapore caratteristico.
Noi abbiamo utilizzato i confetti tradizionali per la crema della torta, la quale è stata decorata con qualche confetto aromatizzato alla frutta, e i pistacchi confettati sono stati utilizzati per i biscotti al coccolato.

In attesa che i nostri dolci si cuocessero, grazie al tempo inclemente abbiamo fatto una merenda  dallo stile un pò British  con tè tiepido e freddo, infusi di frutta secca e fiori ben concentrati che abbiamo allungato con prosecco.

Vi consiglio di scegliere confetti di ottima qualità che non siano confettati utilizzando molto amido, un confetto di ottima qualità avrà uno strato molto sottile di zucchero, non sarà quindi dolcissimo, questa è una caratteristica fondamentale per la crema di confetti e latte di mandorla (non zuccherato) che andrà a riempire il fondo della torta in pasta brisèè aromatizzata all’acqua di rosa.

La pasta brisèè è una delle paste base della cucina classica francese. È estremamente friabile, l’impasto originale non contiene uova ed ha un gusto neutro. Si chiama brisé, cioè spezzata, perché si impasta prima la materia grassa, il burro, con la farina nella quantità sufficiente ad ottenere un impasto di pezzettini staccati l’uno dall’altro; poi si aggiunge la quantità di acqua ben fredda a cucchiaiate, necessaria per ottenere una pasta omogenea, io ho utilizzato acqua di rose; nella pasta briseé si mette sempre un pizzico di  sale ed è tradizionalmente una pasta per torte salate, quindi totalmente assente di zucchero, l’ho utilizzata perchè la crema  ai confetti risulta già dolce di per sè.

Per i biscotti invece, una normale pasta frolla al cacao, il cioccolato starà benissimo con i pistacchi confettati che potrete alternare a pistacchi normali. I pistacchi con il guscio di zucchero aggiungeranno croccantezza al biscotto.

La crema potrà sembrare difficile e improbabile, in realtà sarà sufficiente spezzare i confetti e scioglierli nel latte di mandorle e panna precedentemente portati a bollore, poi con l’aiuto di un frullatore si otterrà un composto fluido e cremoso. Un pizzico di agar agar aiuterà il composto ad addensarsi.

La torta ai confetti e latte di mandorla è una mia pagina invenzione, ma credetemi se vi dico che è una torta che non vi deluderà e oltre che ad essere buona è una torta curiosa e saprà sorprendere i vostri ospiti.
Perfetta per l’estate perchè accenderete il forno solo per 10 minuti, il tempo necessario alla base di pasta briseè per cuocersi.

Per decorare la vostra torta sbizzaritevi con confetti aromatizzati, fiori commestibili e petali di rosa, l’importante sarà non perdere l’armonia dei sapori. I confetti aromatizzati se utilizzati in grandi qualtità e nei sapori troppo a contrasto, a mio avviso possono “stomacare”, per esempio sceglieteli tutti alla frutta o tutti solo aromatizzati ai fiori.

In attesa che la torta fosse pronta per essere decorata, ho fatto assaggiare alle miei invitate le Montpensier, morbidi dolcetti a base di farina di mandorla, soffici e delicati, semplicissimi da farela ricetta è tratta dal libro della famosa pasticceria parigina A la Mere de Famille, non so perchè hanno questo nome, forse sono state pensati per onorare Maria di Borbone-Montpensier, duchessa di Montpensier ricca ma sfortunata in amore.

Si è concluso con una temperatura da cappotto il nostro pomeriggio quasi estivo, con la promessa di rivederci in giardino tra mille lucine colorate in agosto per cucinare cibo caliente sognando la Spagna!

Dunque, tornando al vecchio detto sopra citato, la cura del giardino e il fiorire dei fiori come passaporto per la felicità, conseguenza del prendersi cura di un giardino con affetto, sentimento ed impegno. Chi si prende cura di qualsiasi cosa si accolla anche preoccupazioni e affanni. Il giardino è un simbolo della vita. Un giardino è sempre limitato, ha dei confini, come è giusto e naturale che li abbia anche la nostra vita; nel nostro giardino possiamo cercare di mettere le piante che ci piacciono di più, creando scenari, paesaggi e rapporti tra colori e forme, nello stesso modo in cui ogni giorno cerchiamo di modellare la nostra vita nel modo che sentiamo più autentico.

Il sambuco è un cespuglio che crede di essere un albero, cresce dappertutto e con grande facilià, qui da noi, in romagna,  si trova spesso ai lati delle strade panoramiche. Ha foglie dentellate e fiori piccollissimi raggruppati in grandi ombrelli, le foglie fanno puzza di pipi di gatto non fatevi impressionare da questo odore, a noi interessano i fiori. Le ombrelle di sambuco sono molto simili ai fiori del cerfoglio selvatico che sono decisamente cattivi da mangiare.

I fiori di sambuco sono il profumo dell’estate, una bevanda a base di questi fiori equivale a metterer l’estate in bottiglia. Il liquore che vi propongo è una bevanda pigra, lenta e appena alcolica. E’ facilissima da preparare, così come lo sciroppo e se non siete mai andati a raccogliere fiori in campagna è un ottimo modo per cominciare.

E’ un lavoro divertente ma un pò laborioso, quando avrete finito sarete fieri e lo imbottiglierete con molta attenzione per ogni  goccia che vi uscirà dalla bottiglia vi sembrerà di perdere qualcosa di prezioso. Offritelo a chi saprà apprezzare e servitelo ghiacciato nelle calde serate estive, conservatene una bottiglia per l’inverno, potrete offrirlo a Natale per ricordarsi che l’estate arriverà,

C’è un giardino meravglioso nei pressi di Imola dove le protagoniste indiscusse sono le rose, anche qui ci capito nei mesi di fioritora per lavoro. La passione con cui i roseti ottocenteschi sono curati dai giardinieri da grandi risultati e tutto è un vero piacere per gli occhi, si possono fare lunghe passeggiate e chiacchierare come si usava fare un tempo mentre le rose che si raccolgono diventano semplicemente delizie femminili tra i capelli.
Qui ogni fiore non fiorisce,  esplode!
I petali di rosa si prestano ad innumerevoli impieghi in cucina, dallo sciroppo alla gelatina, dalla acqua profumata al sale; anche i suoi frutti  sono preziosi e ricchissimi di vitamina C.
Purtroppo non ne ho raccolto nulla perchè le rose erano appena stare curate con antiparassitari.

A giugno un parterre di lavanda è un sogno provenzale, è il desiderio di tornare in Francia, è il profumo dei ricordi dentro un cesto che giunto a casa diventerà un pò liquore e un pò gelatina al prosecco da gustare con formaggi dal sapore intenso. Un campo di fiori di lavanda è in assoluto l’oziare sdraiati in mezzo al suo inconfondibile aroma  e al ronzio di un ape.

Molti bei fiori, come tutte le cose belle, possono ingannarci. Non tutti i fiori sono commestibili, alcuni contengono sostanze nocive o addirittura tossiche, i più comuni che non vanno assaggiati neanche per curiosità sono: anemone, ciclamino, mughetto, ortensia, edera, azalea, peonia, iris, oleandro, narciso, giuchiglia e rododendro.

Il mio giardino ha un momento in cui la fioritura dei gelsomini esplode, quest’anno ho provato a fare l’acqua al gelsomino. Il suo profumo è molto intenso e in tavola risulta essere una grande prelibatezza, si usano per i dolci, i sorbetti, i liquori ma anche la crema pasticcera al gelsomino è una delizia da gourmet.

Il periodo del solstizio d’estate è un giorno carico di riti, tradizioni e interessanti leggende. In ogni paese della Valnerina (Marche), fino a qualche anno fa, la sera del 23 giugno si raccoglievano fiori ed erbe profumate che venivano messi a bagno nell’acqua di un catino. L’acqua profumata, resa prodigiosa dagli influssi lunari della notte di San Giovanni, veniva usata per lavarsi la mattina della festa con lo scopo di preservare il corpo dalle malattie. La stessa funzione veniva svolta dalla rugiada, raccolta anch’essa goccia su goccia per detergersi.

Fiori, così belli da vedere che si pensa a tutto tranne che a mangiarli, sono anche un invito per cedere alla gola. Vi ho proposto fiori da trasformare in qualcosa da bere, gli sciroppi possono essere utilizzati per fare dei cocktail o dei long drink limitandosi ad aggiungere ghiaccio e un liquore a scelta: vodka, gin o rum.
Preparare un cocktail risveglia la mia anima tentatrice, preparare qualcosa da bere consente di fare nuove scoperte perchè si utilizzano ingredienti di cui siamo forse più abituati a riconoscere il profumo piuttosto che il gusto.
Ricordate che un miscuglio alcolico ben fatto è in grado di rivoluzionare una serata.

Torta alla crema di confetti e latte di mandorla

Stampo da ca. 25-28 cm
500 ml di panna liquida
200 ml di latte di mandorla non zuccherato
180 gr di confetti classici
Per la briseè:
240 gr di farina
120 gr di burro
Un uovo
Pizzico di sale
Acqua di rosa quanto basta

Preparate subito la pasta briseè impastando gli ingredienti. Lasciatela riposare per un’ora  in frigorifero poi stendete la sfoglia e rivestite lo stampo precedentemente imburrato. Cuocete in forno, precedentemente acceso,  a 180 gradi per 10 minuti.
Spezzare con un  mortaio tutti i confetti.
Portare a bollore la panna liquida con il latte di mandorle, aggiungere i confetti e mescolare fino a chè lo zucchero non si è sciolto. Con un mixer frullare il liquido a crema.
Aggiungere l’agar agar in dose ridotta rispettoo alle indicazioni della confezione che scegliete. Esempio: Se una bustina di povere è consigliate per 500 gr di liquido, voi mettetene solo la metà.
Versare la crema sulla pasta briseè e lasciare raffreddare prima di decorarla.

Biscotti al cacao e pistacchi confettati

Per ca. 15-20 biscotti.
110 gr di burro
40 gr di zucchero
1 uovo
15 gr di cacao amaro
140 gr di farina
50 gr di pistacchi

Impastare tutti gli ingredienti.
Formare un salamino e avvolgerlo nella pellicola per alimenti. Una volta ricoperto cercate di dargli una bella forma.
Riporre in frizar per 45 minuti ca.
Togliere la pellicola e tagliare delle rondelle di circa 5 mm di spessore con un coltello molto affilato.
Sistemarli in una teglia da forno. scaldare il forno a 180 e infornare  per 10 minuti.

Le Monpensier

250 gr di zucchero
250 gr di mandorle in polvere
100 gr di farina
5 uova
50 gr di burro
80 gr di mandorle a filetti

Montare gli albumi delle 5 uova.
In una ciotola montare i tuorli con lo zucchero e successivamente gli altri ingredienti. Quando il composto è spumoso e omogeneo aggiungere le chiare montae che andranno incorporate delicatamente senza smontarle.
Sceglieto lo stampo che preferite e imburratelo, sul fondo riponete le mandorle a lamelle e versate il composto.
Cuocere a 170 gradi per 15 minuti. Il tempo può variare a seconda dello stampo che utilizzerete.

Liquore ai fiori di Sambuco

Per ca.  lt di liquore
4 grosse ombrelle di fiori
600 gr di zucchero
4 lt di acqua naturale
1 limone, scorza e succo.
2 cucchiai di aceto di mele
2 bicchieri di liquore 95 gradi
4 bottiglie molto pulite con un tappo a pressione con gommino

In una pentola capiente sciogliere sul fuoco lo zucchero in tutta l’acqua. Lasciare raffreddare.
Aggiungere tutti i fiori,il limone spremuto, la sua scorza, l’aceto e l’alcol. Mettere il coperchio e lasciare riposare per due giorni.
Filtrare il liquido: riporre una bottiglia con l’imbuto dentro ad una ciotola, questa vi aiuterà a non sporcare con il liquido che potrebbe uscirvi nel momento in cui si inizia a fitrare. Inserire dentro all’imbuto un pezzo di tela a trama fitta, con l’aiuto di un mestolo iniziare a filtrare.

Sciroppo ai fiori di Sambuco

10 ombrelle di fiori
1 kg di zucchero
10 gr di acido citrico
1 limone
1 lt di acqua naturale

Pulire i fiori sotto l’acqua corrente.
Immergere i fiori nel litro di acqua, il limone spremuto e la sua scorza, lo zucchero e l’acido citrico.
Lasciare riposare per tre giorni, mescolare ogni tanto.
Filtrare con l’aiuto di una tela e imbottigliare.

Liquore alla lavanda

Per ca.  lt di liquore
4 grosse ombrelle di fiori
300 gr di zucchero
4 lt di acqua naturale
1 limone, scorza e succo.
2 cucchiai di aceto di mele
2 bicchieri di liquore 95 gradi
4 bottiglie molto pulite con un tappo a pressione con gommino

In una pentola capiente sciogliere sul fuoco lo zucchero in tutta l’acqua. Lasciare raffreddare.
Aggiungere tutti i fiori,il limone spremuto, la sua scorza, l’aceto e l’alcol. Mettere il coperchio e lasciare riposare per due giorni.
Filtrare il liquido: riporre una bottiglia con l’imbuto dentro ad una ciotola, questa vi aiuterà a non sporcare con il liquido che potrebbe uscirvi nel momento in cui si inizia a fitrare. Inserire dentro all’imbuto un pezzo di tela a trama fitta, con l’aiuto di un mestolo iniziare a filtrare.

Gelatina alla lavanda

500 gr di lavanda pulita
500 gr di zucchero
500 ml di prosecco
200 ml di acqua
Agar agar per 500 ml di liquido

Pulire i fiori di lavanda.
In una casseruola fare bollire per 15 minuti l’acqua, il prosecco e la lavanda. Lasciare raffreddare e fitrare.
Riporre il liquido nuovamente su fuoco insieme allo zucchero fino a che non si sarà leggermente addensato, a questo punto aggiungere l’agar agar, mescolare ancora per tre minuti, spegnere il fuoco e invasare.

Acqua ai fiori di gelsomino

1 lt di acqua minerale naturale
100 gr di fiori di gelsomino
Qualche foglia di menta
Due fette di lime
Ghiaccio per servire
Fiori a piacere per abbellire la caraffa

Pulire i fiori lavandoli sotto l’acqua. In una casseruola versare 500 ml di acqua, immergervi i fiori di gelsomino e metterla sul fuoco, portare a bollore e spegnere il fuoco. Lasciare raffreddare e filtrare.
Aggiungere il resto dell’acqua e riporla nella brocca che si intende utilizzare per servirla, aggiungere un ciuffo di menta, le fettine di lime e i fiori a scelta. Servire con ghiaccio.

Foto: Simona Xella,  foto a me di Isabella Camaggi.
Ceramiche: Simona Xella,  Appuntamento con il decoro, Dozza
Disegni: Simona Xella

Bibliografia:
“A la mere de famille”, Ed. L’ippocampo
“Crostate”, Alessandra Avallone, Mondadori 1990
“Cucinare con i fiori”, Caldirola-Gallozzi, Fabbri Editore
“Alberi”, Ed. Atlante

Dozza, 30 giugno 2018

Ricette provenienti da un cammino lungo e speciale.

Le piante provano emozioni? Il mondo vegetale è in grado, almeno in alcune specie, di pensare, di comunicare, di avere una memoria? Michel Pollan, un giornalista scientifico, autore di libri come “Il dilemma dell’onnivoro”, “In difesa del cibo”, e “La botanica del desiderio”, da anni segue gli sviluppi delle ricerche sulle capacità sensoriali delle piante. Egli afferma che: “Il fatto che esse non abbiano un apparato neuronale, come la maggior parte degli esseri appartenenti al regno animale, non vuole dire che siano incapaci di provare sensazioni e comunicarle. Sarebbe come dare per scontato che, su un altro pianeta non ci possa essere vita, perché la sua atmosfera non rispecchia la nostra. E se ci fosse una vita che si basa sull’ammoniaca anziché sul carbonio per crescere?”

Un team di ricercatori torinesi, assieme ai tedeschi, ha pubblicato su una prestigiosa rivista l’esperimento in cui un bruco sgranocchiava una foglia mentre la pianta chiaramente reagiva secernendo sostanze chimiche a sua difesa e soprattutto comunicava il pericolo ad altre piante. Le foglie si difendevano producendo più oli di senape, sostanze chimiche poco attraenti per i bruchi.

Dall’Università Di Tel Aviv arriva il famoso esperimento sulla Mimosa che si chiude se si versano gocce di sostanza irritante, ma rimane aperta se prima si cosparge con un anestetico. Forse un caso, visto che la Mimosa ha un organello chiamato Pulvinus che non tutti i vegetali hanno. Probabilmente non è vero dolore, ma che le piante provino emozioni, abbiano una memoria e comunichino tra di loro, è un dato ormai certo, a meno che non si voglia commettere l’errore di pensare che solo l’uomo prova dolore e gli animali no, perché sono diversi.

Anche se si tratta di un post di cucina vegana sono partita da una considerazione opposta ad essa per sottolineare che per ogni presa di posizione c’è sempre una compensazione, in questo caso vegani contro carnivori e viceversa. Se i pericoli insiti nelle carni lavorate hanno fatto gioire i vegani, gli onnivori potrebbero vendicarsi domani, accusandoli di avere provocato una strage silenziosa, di insalata, carote, sedani e cavolfiori. Una riflessione un po’ al limite, ironica, per sdrammatizzare una vera e propria disputa in corso che forse non troverà mai un vincitore.
Questo porta ad un aspetto secondo me importante: al come un vegano si relaziona con i non vegani. Vi sono persone perfettamente rispettose e intelligenti, altre supponenti che si credono portatrici dell’unica verità, la propria. La scelta vegana è una scelta che ha un percorso alle spalle e che non tutti condividono e sono interessati a compiere. Ritengo importante confrontarsi e misurarsi con gli interrogativi posti, ma ci dev’essere un punto oltre il quale non ritengo giusto andare ed è quello di rispettare le scelte altrui, che possono avere motivazioni anche discutibili, ma che comunque vanno rispettate.



Cosa spinge una persona a rinunciare a carni e derivati animali? Lo stile vegano o vegetariano è tutt’altro che semplice e nasconde una psicologia complessa e articolata che include principi filosofici, differenze di genere e di età.
Ho conosciuto Simona proprietaria con Chiara di Bio Green, gastronomia da asporto nel centro storico di Imola, il suo invito ad assaggiare la sua cucina mi ha fatto conoscere un nuovo modo di considerare e utilizzare le materie prime vegetali facendomi conoscere il mondo vegano tanto discusso, amato e odiato. Purtroppo non ho conosciuto Chiara perchè non era a Imola nel periodo in cui ho avuto contatti con Simona.

Alla scelta vegana si arriva dopo un lungo cammino, il veganismo segue un percorso del tutto razionale e si stacca dal modello dominante “voluto dall’alto” che ha determinato l’avvento di una società autistica e priva di senso critico, e si inserisce in un contesto che predica dal basso – e alla luce del sole – una migliore distribuzione delle risorse, una visione del mondo per il rispetto di tutti gli esseri viventi e che va contro le aberrazioni del sistema consumistico dominante il quale è fautore della distruzione dell’ecosistema in senso lato e che ingrossa pochi a discapito dei molti.

Dopo il recente avvertimento dell’Oms sulla cancerogenicità delle carni rosse lavorate, è un dato scientifico di pubblico dominio che la dieta dev’essere povera di grassi animali per poter essere salutare, questo però non significa dover mangiare cose tristi: la cucina vegana ha una ricchissima serie di preparazioni gustose senza dover per forza voler riproporre la rivisitazione dei piatti tradizionali con la serie dei “senza”: senza uova, senza latte, senza burro. Ed è così la cucina di Simona e Chiara, semplice e casalinga che rispecchia la personalità eclettica di Simona ma non aspira ad essere sofisticata perchè, essendo una rosticceria, le loro sono ricette che devono soddisfare la quotidianità.
Credo che per loro cucinare sia ovviamente un piacere ma anche una missione, il loro piccolo modello di economia è piuttosto virtuoso, non solo per i principi a cui si ispira ma per come cercano di metterli in pratica: attraverso gli acquisti ai produttori locali,  la partecipazione alle iniziative di stampo ecologista e l’organizzazione di appuntamenti volti ad approfondire non solo la cucina bio vegan ma anche a celebrare le passioni di Simona. Il sabato pomeriggio il locale diventa “Caffè filosofico” con la presentazione delle poesie di poeti imolesi, rassegne di danza e presentazioni bibliografiche, aperitivi e concerti di nicchia.

Ho scoperto alcuni prodotti “commestilbili” a me completamenti sconosciuti, uno di questi è il fiore di loto. In realtà è la radice che si può cucinare, essa è parte di una pianta acquatica perenne; la particolarità di questa pianta consiste nel fatto che le sue radici crescono sott’acqua nel fango, dando vita a fiori particolarmente belli e profumati. L’attenzione nei confronti della pianta di loto ha origini antiche: il fior di loto, considerato sacro per induisti e buddisti, si ritrova anche nelle rappresentazioni dei sette chakraDal punto di vista nutrizionale questa radice è ricca di minerali, ferro e magnesio, e di vitamine; tra queste spicca soprattutto la vitamina C, presente in una percentuale piuttosto elevata.

Ho assaggiato questa radice con l’amaranto condito con crema di spinaci, porro e polvere di tè matcha.
Anche l’amaranto è stata una scoperta entusiasmante: alimento sacro agli Inca e agli Aztechi che lo chiamavano grano degli dei , è un concentrato di proteine e sali minerali.
Ingrediente versatile, dopo essere stati cotti possono essere subito utilizzati, oppure risciacquati perchè in cottura si forma una sorta di gelatina, che potrebbe non essere adatta ad alcune preparazioni, ad esempio se vogliamo preparare insalate. Con mia figlia ho provato a fare i pop corn, sarà sufficiente porli stesi in un unico strato sulla padella e si comporteranno esattamente come i cicchi di mais.

Per la cena, nella cucina di Simona e Chiara abbiamo preparato le tagliatelle vegane, cioè senza uova. L’impasto può variare a proprio piacimento, si possono mischiare tipologie di farine diverse, esempio farro con farina integrale o kamut con farro, in queste che seguono in foto abbiamo aggiunto la curcuma in polvere.
La versione che poi ho sperimentato a casa ha un impasto costituito da una parte di farina ai quattro cereali e una parte da farina semi-integrale tipo 1, ho aggiunto un’abbondante cucchiaio di cucuma e un cucchiaio di olio extravergine di oliva. Questi impasti vengono molto bene anche con farine di verdure essicate, ottima la farina di piselli. Di fondamentale importanza l’utilizzo di farine macinate a pietra.
Un pò di difficoltà si può avere a tirare a mano questi impasti perchè tendono ad essere meno elastici dei classici contenenti uova. La macchina che fa la sfoglia è una veloce alternativa ma non mi piace il risultato, la sfoglia sarà più liscia e ne perderà di gusto. Il mio consiglio è di lasciare lo spessore un pò grosso o in cottura tenderanno a spezzarsi risultando più dei maltagliati che delle tagliatelle e se prevedete di saltarle in padella con il condimento, lasciatele al dente.

Ecco una ricetta sfiziosa da poter proporre anche ai bambini. Davvero buoni questi mini hamburgher, ai ceci o alla soia a cui si può aggiungere una qualsiasi verdura a piacere, qui abbiamo utilizzato i broccoli conditi con semi di papavero e di sesamo.

Molto nutrienti e gustosi; i ceci, come gli altri legumi, ad esclusione di piselli e fagiolini, sono un’ottima fonte di proteine vegetali, li abbiamo mangiati a cena con i panini di Biogreenfood alla farina di lino e alla zucca. Rucola, insalata e maionese vegana hanno aggiunto freschezza.

Infine i dolci. I dolci vegani  mi hanno sempre incuriosito non tanto per la “potenziale” mancanca di gusto, cosa che non è, ma perchè mi sono sempre chiesta come fanno gli ingredienti a stare insieme senza le uova.
Le uova e il burro sono due ingredienti molto importanti nei dolci perché conferiscono idratazione e morbidezza, i dolci vegan sostituiscono questi due ingredienti con alimenti come la banana, l’avocado o le zucchine. Questi danno alla torta la possibilità di essere soffice e morbida, ben idratata, ma non appiccicosa.
La torta che ho imparato da Simona e Chiara è al cioccolato e zucchine, con il loro sapore delicato, non si sentiranno minimamente nella torta e vi stupiranno. Ho scelto di accompagnare questo dolce con la crema pasticcera vegana, altra meraviglia, che in realtà è una crema di miglio. La ricetta che ho provato a fare io è semplicissima, prevede la cottura del miglio nel latte di mandorla con la scorza d’arancio ed è dolcificato con il malto, ma si potrà utilizzare anche latte di soia o miele.  Doverosa una nota sul cioccolato vegano: non deve contenere latte in polvere il quale viene sostituito con leticina di soia.


La cena organizzata per conoscere la cucina vegana ha utilizzato solo alimenti locali e stagionali, rigorosamente biologici, dove non è stato possibile per volontà di Simona sono stati utilizzati prodotti provenienti dal mercato bio ecosolidale. Alle portate sono stati affiancati vini naturali selezionati dal Sommelier Andrea Gollini.
Ma che cos’è biologico per un vegano? Bio per la maggior parte di noi  è quello che compri nei negozi di nicchia con l’etichetta bio. Bio per un vegano è ciò che si trova di nato spontanemente nel bosco o nei prati, è ciò che c’è nel proprio orto dove non viene usato neppure il letame ne tanto meno veleni vari perchè esiste una cultura dell’agricoltura per la quale se pianti due specie diverse di vegetali vicine si concimano e difendono a vicenda.

Non si diventa vegani dopo una cena o cucinando alcuni nuovi ingredienti, la scelta vegana segue un percorso ben preciso che si compie anche in anni in cui si incontrano nuove culture del cibo e spirituali. Simona per esemio, è nata in campagna, i suoi genitori sono proprietari di una fattoria ma a 14 anni diventa vegetariana, studia filosofia e impara le lingue orientali, conosce la cucina macrobiotica,  in un soggiorno a Pechino approfondisce la lingua cinese all’università poi viaggia nelle province del Nord dove visita il Wu Tan Shan, una riserva buddista. Rimase impressionata dalla dedizione dei fedeli, dall’osservanza delle norme dell’ottuplice sentiero: “.. ho conosciuto degli illuminati, monaci dal sorriso sulle labbra e di una profonda saggezza che mi hanno cambiato molto” Oggi è traduttrice di lingua cinese, cucina vegano con animo rivoluzionario e in modo totalmente coerente ai suoi ideali tanto essere giudicata “folle”, infine è di recente diventata insegnate di yoga.
Simona è estrema in tutto ciò che fa, quindi, o ti piace o non ti piace. Non esiste una via di mezzo.

Il punto di partenza della filosofia vegana e della psicologia di chi abbraccia questa alimentazione ha a che fare con l’abbattimento di un pregiudizio: lo specismo. Al pari del razzismo, si tratta di una convinzione di superiorità di una specie sulle altre che accompagna da sempre la storia e la crescita della specie umana. Credo che vegani e vegetariani non diano più per scontato la convinzione di essere più “evoluti” degli altri manifestando così il loro rispetto con una sincera volontà, quella di far conoscere anche ad altri un modo di alimentarsi non solo salutare ma anche etico.

Per questo credo che chiunque può entrare in una gastronomia vegana anche solo per provare nuove ricette e conoscere nuovi ingredienti, non verrà additato come colui che è  “l’assassino degli animali”, anzi sarà il benvenuto perchè avrà la possibilità di aprirsi al “diverso”. Un’incurione nel mondo vegetale potrebbe aprirci inizialmente nuovi orizzonti di benessere e allora perchè non iniziare proprio con una cena?

Alcune ricette sono state pensate ed elaborate da me altre sono state cucinate da Simona come l’amaranto ai fiori di loto,  il miglio agli spinaci con germogli, la crema di miglio per il dolce (ricetta segreta) e una sua specialità che chiama farifrittata che io ho accompagnato ad una insalata di spinaci all’olio di semi di zucca, anacardi e crema di sesamo allo zafferano. Per il condimento delle sue tagliatelle alla curcuma ho scelto i topinabur in abbinamento ad una crema di porro. Ho cucinato l’amaranto condendolo con pomodorini essicati, mandorle tostate, porro e curry; ho lasciato il gel che tende a rilasciare in cottura per legare il tutto in un quasi tortino che è stato servito con fagiolini e salsa alla crema di mandorle e arancio.

Per quanto riguarda i vini legati a questo mondo, ho letto un interessante articolo dell’enologo Massimiliano Montes dove sono spiegate le differenze tra vino naturale, biologico e biodinamico.
Per quanto riguarda il vino naturale, in Italia ci sono due grandi organizzazioni di produttori di vino naturale, Vinnatur e ViniVeri, che si sono autoregolamentate, ponendo dei limiti alle pratiche consentite in vigna e in cantina. I protocolli di entrambe le associazioni, proibiscono l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici in vigna, l’uso di lieviti selezionati per innescare la fermentazione, l’uso di additivi chimici e coadiuvanti nel mosto e nel vino. Limitano inoltre l’uso di anidride solforosa come antisettico e stabilizzante.
Le coltivazioni biologiche devono rispettare determinate regole, simili a quelle adottate dai produttori di vino naturale, che vietano i prodotti chimici di sintesi. Nella fase della vinificazione, momento fondamentale per il mantenimento di una naturalità di aromi del vino, la nuova normativa sul vino biologico lascia al produttore libertà sull’uso di lieviti selezionati, additivi chimici e coadiuvanti enologici durante i processi di vinificazione, demolendo così qualsiasi possibile significato di “naturalità” attribuibile ai vini etichettati come biologico, in poche parole afferma Montes: “Il vino biologico, così come la legge lo prevede, potrebbe essere naturale ma potrebbe anche non esserlo.”

Ho trovato interessante approfondire con diverse letture che cos’è esattamente la biodinamica e di conseguenza capire che cosa si beve se il vino è detto biodinamico. Correttamente si parla di vino ottenuto da uve da agricoltura biodinamica, le norme di coltivazione e vinificazione “biologica” della biodinamica, sono molto rigide.
La biodinamica nasce all’inizio dello scorso secolo seguendo le ispirazioni cosmologiche di Rudolf Steiner, esoterista e “mago bianco”. L’agricoltura biodinamica si basa sull’idea della natura in equilibrio, cioè bisogna mantenere equilibrato in modo naturale il terreno con tutti i suoi organismi per ottenere, nel caso del vino, da viti sane dell’uva di alta qualità.
Nella pratica questo vuol dire che nell’agricoltura biodinamica non vengono utilizzati concimi, fitofarmaci, diserbanti ma si somministrano in dosi omeopatiche dei preparati naturali ottenuti da processi fermentativi, decotti e minerali, sempre tenendo conto delle fasi della luna e del sole; si lavora il terreno secondo metodi tradizionali come arare lentamente con il cavallo e letamare.
Dalla viticoltura biodinamica non necessariamente si ottengono vini migliori, dipende sempre dall’enologo, da che cosa riesce a creare dal potenziale dell’uva che però sicuramente è di una qualità molto più alta, ogni annata è diversa è un vino che mi viene da pensare che più di altri “esprime” veramente il territorio in cui viene prodotto.

La cena si è conclusa con un dolce di tutto rispetto, un vero e proprio dessert, ed è su questo che siamo arrivati al dunque, dopo tanto parlare. Ci siamo chiesti se la dieta vegana ha senso o è solo una moda, se rinunciare a tutti gli alimenti di origine animale sia un fenomeno passeggero, o possa fare davvero bene, al di là dell’aspetto etico.

Ad essere obbiettivi, alla luce delle conoscenze acquisite con questa esperienza, io credo che la dieta vegana non sia una moda, ma un regime alimentare da vivere come scelta personale, tenendo conto che ha dei pro e dei contro come tante altre diete, se si arriva alla scelta vegana per moda, senza conoscere le capacità nutrizionali degli alimenti si creano grossi danni alla salute.
Quando poi riconosco la mia scelta come mia ed unica responsabilità e sopratutto lascio liberi gli altri di scegliere, sono in una visione globale in cui non esiste ciò che è bene o che è male. Esiste la libertà di espressione.

Amaranto ai pomodorini essicati e curry con salsa all’arancio e burro di mandorle

Dose per 8/9 tortini.
4 hg di amaranto
Un vasetto di pomodorini essicati di ottima qualità
Olio extravergine di oliva
Tre cucchiai di crema di mandorle
1 hg di mandorle tostate
Una grossa cipolla rossa
Curry, sale e pepe
Una grossa arancia
Un pugno di maggiorana
Circa 50 fagiolini da lessare.

Per prima cosa cuoci l’amaranto. Prima di cucinare i semi di amaranto è bene lavarli accuratamente, successivamente vanno bolliti in un volume di liquido (acqua o brodo) pari al doppio del loro, per un tempo che va dai 20 ai 30 minuti. Trascorso questo tempo la pentola va coperta e i chicchi, in essa contenuti, lasciati riposare per una decina di minuti, per permettere loro di terminare di gonfiare.
In un wok soffriggi la cipolla tritata con l’olio extravergine di oliva, aggiungi i pomodorini essicati e le mandorle spezzate grossolanamente. Aggiungi sale e curry a piacere.
Prepara la salsa. Scalda il burro di mandorle e aggiungi il succo di arancio, sale e pepe. Lasciala addensare per qualche minuto.
Cuoci i fagiolini in acqua salata. Lasciali al dente e appena li avrai scolati mettili subito sotto un getto di acqua fredda, rimarranno di un bel colore verde.
Componi il tortino aiutandoti con un coppapasta, il gel rilasciato dall’amaranto in cottura ti aiuterà a tenerlo iniseme. Riponi sopra i fagiolini precedentemente conditi con olio e maggiorana. Aggiungi la salsa all’arancio.

Insalata di spinaci e anacardi con crema di sesamo allo zafferano

Dose per 8 persone (ca. un nido a testa)
1 chilo di spinaci freschi da pulire
Olio di semi di zucca
Un aglio
Un grosso scalogno tritato
2 cucchiai di crema di sesamo
zafferano in quantità a piacere
2 hg di anacardi tostati

Pulisci gli spinaci e taglia a strisce larghe le foglie. In un wok  molto capiente soffriggi l’aglio e lo scalogno tritato nell’olio di semi di zucca, aggiungi gli spinaci e tienili sul fuoco quanto basta per farli appassire. Sala.
In un contenitore alto e stretto riponi 300 ml di acqua e 3 cucchiai di crema di sesamo, sale e pepe e zafferano. Frulla il tutto. Al momento di scaldare gli spinaci per servirli, versa la salsa allo zafferano sugli spinaci e legali bene prima di servire. Cospargi l’insalata con gli anacardi tritati e tostati.

Tagliatelle al topinambur e porro

Dose per 8 pesone (ca.80/90 gr a testa)
600 gr di farina a scelta
integrale, semi-integrale, farina tipo 1, farro, kamut, cereali misti
Curcuma in polvere a piacere
Un cucchiaio di olio
Un pizzico di sale
Per il condimento:
Due grossi scalogni
600 gr di topinambur da pulire
Curcuma fresca da grattugiare
Uno spicchio di aglio
Olio extravergine

Prepara le tagliatelle impastando energicamente tutti gli ingrdienti e gradualmente aggiungi acqua quanto basta. Tira la sfoglia e taglia le tagliatelle ricavandole da un rotolino. Prima di arrotolare la sfoglia ricorda di spolverarla con la farina o si attaccherà.
Prepara il condimento tagliando per primi i topinambur a lamelle sottili. Soffriggi l’aglio con la buccia, aggiungi lo scalogno sminuzzato finemente e infine il topinambur. Lascia cuocere a fiamma bassa e aggiungi acqua quanto basta per portare la verdura alla cottura desiderata. Sala. Io preferisco che il topinambur resti croccante.
Prepara la crema di porri. Taglia a rondelle il porro, soffriggilo e termina la cottura utilizzando un buon brodo di verdure. Aggiusta di sale e frulla a crema.
Al momento di servire salta le tagliatelle nel condimento. Stendi sul piatto un mestolo di crema di porro, riponi un nido di tagliatelle e grattugia la curcuma fresca.

Mini hamburgher di ceci e mini hamburgher di soia e broccoli

Dose per circa 10 hamburgher di ceci
(diam.6 cm, spessore ca.1 cm)
800 gr di ceci lessati
3 cucchiai colmi di pane integrale grattugiato
1 cucchiaino colmo di senape di digione
Uno scalogno
sale
Semi misti (lino, sesamo, papavero)
Dose per circa 10 hamburgher di sosia e broccoli
(diam.6 cm, spessore ca.1 cm)
400 gr di fiocchi di sosia
400 gr di broccoli lessati ( verdura a piacere)
Due cucchiai colmi di pane integrale grattugiato 
sale
Semi misti (lino, sesamo,papavero)

Preparazione per gli hamburgher ai ceci.
Cuocere i ceci in abbondante acqua salata e romatizzata con erbe a piacere ( salvia, rosmarino ecc..)
Soffriggere in un pò di olio di oliva extravergine lo scalogno.
Frullare i ceci, lo scalogno, il pane e la senape aggiungendo se occorre un pò di acqua di cottura dei ceci. Aggiustare di sale e semi a piacere (papavero, sesamo o lino)
Con questo composto, aiutandosi con il coppapasta formare gli hamburgher e prima di infornare aggiungere un filo di olio. Cuocere a 180 gradi fino a che non si saranno compattati e avranno formato una leggera crostina.
Preparazione per gli hamburgher di soia e verdura.
Cuocere la soia come da istruzione del saccheto della confezione scelta.
Soffriggere in un pò di olio di oliva extravergine lo scalogno.
Lessare la verdura scelta.
Frullare la soia, lo scalogno, il pane e la verdura scelta aggiungendo se occorre un pò brodo di verdure. Aggiustare di sale e semi a piacere ( sesamo, papavero o lino)
Con questo composto, aiutandosi con il coppapasta formare gli hamburgher e prima di infornare aggiungere un filo di olio. Cuocere a 180 gradi fino a che non si saranno compattati e avranno formato una leggera crostina.

Tortini di cioccolato e zucchine con crema di miglio e malto.

Dose per ca. 8 monoporzioni
Per la torta:
180 gr di zucchine
170 di olio di semi di mais
130 gr di latte di mandorle
60 gr di cioccolato fondente
Due cucchiai  rasi di cioccolato in polvere
125 gr di farina semi-integrale, tipo 1
150 gr di zucchero di canna
Un cucchiaino di bicarbonato
Un cucchiaino di lievito per dolci
Un pizzico di cannella
Per la crema di miglio:
80 gr di miglio
La scorza di un arancio
Mezzo litro di latte di mandorle o soia
2 cucchiai di malto o miele.

Preparare la crema: cuocete il miglio nel latte di mandorle insieme alla scorza di arancio. Quando il miglio sarà ben cotto aggiungete il malto e mescolate bene, lasciate riposare il miglio nella casseruola con il coperchio. Frullate il composto a crema liscia e regolate il latte per dare alla crema la giusta consistenza. Se il malto ha rilasciato troppo amido aggiungere un pò di latte di mandorle, se è troppo liquida continuata la cottura fino a chè non si srà addensata.
Prepara ora la torta al cioccolato e zucchine.
Frulla le zucchine. Unisci tutti gli ingredienti secchi, cacao in polvere, farina, zucchero, cannella, bicarbonato, lievito, e mescolali con le zucchine frullate. Sciogli il cioccolato fondente con il latte di mandorle e uniscilo al composto di zucchine. Per ultimo aggiungi  l’olio di semi e amalgama molto bene .
Versa in stampi monodose o in uno stampo classico da torta, cuoci in forno caldo a 180 gradi per circa 50 minuti.


Potrai conoscere
Simona Biagi al Biogreen , al Mercobio di Imola,
e nel suo blog, biogreenfoodimola

Allestimento: Simona Xella,  Appuntamento con il Decoro
Foto: di Simona Xella, dove indicato (basta un clic sulla foto), alcuni bei scatti della nostra cena sono di Vanessa Vivoli

Bibliografia:

Oscar Grazioli, articolo da “Il Giornale”
Marina Berati, “Vegani si nasce o si diventa?”
Emanuela Barbero, Alessandro Cattelan, Annalaura Sagramora,
“La cucina etica”

Michel Pollan, “Il dilemma dell’onnivoro”, “In difesa del cibo”,
“La botanica del desiderio”

Nicolas Joly, “Il vino tra cielo e terra”
Missimiliano Montes, articolo da “Gusto di vino”

Dozza, 29 Marzo 2017

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